I "Like" this photography

Da diversi mesi, forse alcuni anni, seguo con attenzione il dibattito tra i fotografi "analogisti" della prima ora ed i nuovi professionisti del digitale e tra questi ed i creatori di fotografia sociale, gli instragramers per intenderci.

 

La maggior parte dei fotografi (professionisti o i semplici appassionati) difendono strenuamente il lavoro di chi per raccontare una storia, per comunicare con le immagini, ha studiato, ha speso tanto denaro in attrezzatura e - soprattutto - ha quel qualcosa in più, che non si impara e non si compra, che rende capaci di trasmettere il proprio pensiero con un click: il talento.

 

Il più delle volte, gli stessi fotografi snobbano tutto ciò che ruota attorno alla fotografia sociale, ad instagram ed all'iphonografia, passando il resto del tempo a lamentarsi che il mercato non è più quello di una volta, che la propensione dei clienti a pagare per un'immagine si sia sostanzialmente azzerata e che il fotogiornalismo è morto.

...e mentre nei "salotti buoni" della fotografia si continua a dibattere e ad imprecare contro gli smartphone e contro chi ti chiede di fargli qualche scatto gratis, su Facebook vengono caricate ogni giorno quasi 400.000 foto.

 

A questo punto, credo sia il caso di fermare per un attimo questa sterile disputa "dottrinale" e cominciare veramente a riflettere sull'evoluzione della comunicazione per immagini, sia essa il reportàge, la ritrattistica, fotografia pubblicitaria o altro, come ad esempio il cazzeggio con Instagram!

 

Per farlo, mi permetterei di sollevare una domanda: quando nel 1923, dieci anni dopo che viene fondata la Leica, venne brevettata la pellicola Polaroid, ci si è posti il problema che quest'ultima faceva delle foto decisamente più "scadenti" della prima? O forse ci si è fermati a riflettere su cosa immortalassero quelle foto, cosa volesse raccontare chi scattava, fosse "migliore" il ritratto di Bresson a Penelope Cruz, rispetto a quello di Wharol a Farah Fawcett? Forse no.

 


Forse, prima dell'avvento dei social network, ci si fermava solo a guardare le foto, a leggerle ed a cercare di capirne il messaggio.

Possiamo forse dire che i graffiti nelle caverne degli uomini primitivi sono più o meno belli di Guernica di Picasso? Direi di no, perchè in mezzo ai due ci sono secoli di evoluzione del pensiero e della tecnologia umana, accomunati da un unico fine: raccontare qualcosa. Che si usasse un pezzo di carbone su pietra per raccontare una scena di caccia o un pennello ed una tela per raccontare la guerra, non fa secondo me alcuna differenza: restiamo ammirati da entrambi.

 

Portiamo allora ai giorni nostri il discorso. Possono milioni di utenti che fotografano quello che mangiano, propri dettagli anatomici, il proprio cane o un tramonto, essere paragonati al racconto della vita nelle metropoli di Martin Roemers (vincitore della categoria Stories del World Press Photo 2012)?

Credo proprio di no. E dire che il reportàge di Roemers ha un sacco di foto "mosse"!

 



Martin Roemers | World Press Photo 2012
Martin Roemers | World Press Photo 2012

Forse bisognerebbe smettere di dibattere sullo strumento, lasciando che milioni di utenti con una fotocamera digiatale in mano (che non vuol dire certo fotografi professionisti!) continuino ad esprimersi liberamente. Forse è necessario tornare a dibattere sui significati, aprendo il nostro orizzonte artistico, tecnico e commerciale ad un nuovo modo di trasmettere il nostro messaggio, ad un'evoluzione che non possiamo evitare, di cui però possiamo cogliere le opportunità.

 

Voi che ne pensate?

 

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Commenti: 2
  • #1

    Barbara Parolini (giovedì, 27 settembre 2012 19:44)

    Giustissimo.
    Gli strumenti che permettono di realizzare facilmente immagini più o meno belle (smartphone, compatte o reflex sempre più accessibili) ed i media che permettono di trasmettere immagini ed idee influenzano inevitabilmente i gusti ma soprattutto la percezione del valore di quello che noi fotografi produciamo. Se è vero che si vende solo quello che altri non hanno, non sanno fare o non hanno il tempo di fare; ed è vero che sempre più persone credono di "saper fotografare" o che per fare belle fotografie basti l'attrezzatura; quello che fa la differenza semplicemente (banalmente forse) è sempre e comunque il fotografo. Il cuore, la tecnica, l'attrezzatura ma soprattutto la testa. Se della fotografia vogliamo fare un mestiere (o arte, magari, che vende) dobbiamo saperci vendere, differenziarci, produrre quel qualcosa che gli altri non sanno fare. E che vogliono. Lamentarsi perché "la gente" usa un certo strumento vale quanto pensare di non poter creare ottime immagini senza l'ammiraglia. Le fotografie "degli altri" possono essere belle o brutte. Ma se le nostre non vendono non è solo colpa delle foto degli altri.

  • #2

    DB (giovedì, 27 settembre 2012 20:21)

    Grazie per il commento e per aver codiviso il tuo punto di vista!